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Terza cultura

Identità, maschere e circostanze: da Bansky a Pirandello

Vivere è costruire un’identità personale autentica, in mutua relazione con l’alterità. Aprire finestre nel cielo ed accettare il rischio di nascere alla propria luce, ricchi d’ali.

I nuovi supereroi sono i medici e gli infermieri: in tempi di Coronavirus l’abbiamo sentito dire innumerevoli volte, tanto da sembrare retorico. La vulnerabilità ci rende umani e le gesta più eclatanti sono quelle compiute da individui comuni, nei quali riconoscersi e scorgere un’ipotesi di futuro.

A ribadire il concetto è il misterioso street artist Banksy che ha tratteggiato un bimbo mentre ‘fa volare’ un’infermiera – eroina, sopra la sua testa, lasciando ammucchiati in un cestino i vecchi supereroi come Batman e Spiderman. Anche i giochi cambiano, come evidenzia il titolo ‘Game Changer’ della sua opera. Un’infermiera in rappresentanza di tutto il personale medico: il grembiule con la croce rossa, le braccia in posizione di volo, un mantello, sul volto la mascherina: come i supereroi.

La maschera è lo strumento che permette una personalità diversa, separata. Un alter ego, un doppio che svela o al contrario, nasconde: protegge. Tipico oggetto di scena nel teatro classico, tragica o comica, secondo la concezione di Pirandello, la maschera può essere anche quell’identità che ogni individuo sceglie e nelle quali si immedesima, per poter interpretare il suo corretto ruolo all’interno della comunità.

L’accettazione e la creazione di una maschera che oscura e limita la reale personalità individuale, fa sì che ad ogni individuo venga attribuita, da sé stesso e dagli altri, una funzione che deve essere assecondata poiché rispecchia il suo ruolo all’interno della società.

Oggi si fa fatica a riconoscersi visivamente sotto i dispositivi di protezione e sembriamo come privati di un’identità definita. Le priorità sono cambiate, così come la percezione di quella che definiamo normalità. Ne “Il fu Mattia Pascal”, il ritorno alla vita del protagonista porta soltanto alla consapevolezza che egli è divenuto una “maschera nuda”, un soggetto senza identità. Egli, infatti, scopre di non poter rientrare nella sua precedente vita a causa dei suoi familiari e della società, che ormai lo considerano morto. Non gli resta che estraniarsi da ogni meccanismo sociale diventando un osservatore della vita, da un passato remoto.

La questione delle maschere viene poi ripresa e ulteriormente approfondita in “Uno, nessuno, centomila”. Pirandello pone l’accento sulla teoria delle identità, secondo la quale l’uomo porta con sé due tipi di identità: quella personale, anagrafica, e quella collettiva ossia quella assegnatagli dalla società. L’identità personale è diversa in ognuno, l’identità collettiva invece è un “ruolo”, in quanto la persona è riconosciuta tale dalla collettività in cui vive. Esiste un numero indefinito di identità collettive che uno stesso uomo può assumere per potersi inserire adeguatamente in ogni diverso contesto comunitario, da quello lavorativo a quello familiare. L’importanza dell’identità personale e individuale non viene soppressa ma soltanto adombrata dall’identità “funzionale” nel momento in cui si è pensati e visti all’interno dell’ambiente collettivo. Ognuno deve accettare la maschera, un po’ come fa un attore. Non a caso, Pirandello definisce il mondo come un grande teatro in cui ogni individuo interpreta una parte.

Se una quindicina d’anni fa destava stupore che una star come Michael Jackson indossasse la mascherina come cifra stilistica vagamente ipocondriaca, oggi ci si è arresi a rendere la propria identità flessibile, ad accettare tutte le maschere che, di volta in volta, vogliamo o siamo costretti ad indossare.

L’ultimo dei problemi sembra essere quindi l’obbligo di indossare una mascherina reale, promossa a gadget firmato o declinata in fantasiose divagazioni che ne stemperino la drammaticità. Una mutazione genetica è avvenuta.

James Ensor, pittore e incisore belga, ha anticipato le tendenze moderne e la società di massa. Nelle maschere, suo tema prediletto, mirava a ritrarre il volto grottesco dell’umanità. Le sue maschere perturbanti e colorate, ridotte ai minimi termini nella loro rappresentazione fino ad assumere a volte la forma scarnificata del teschio, non celano, ma anzi rivelano, la peculiare e alienante ferocia di ognuno.

Ensor ci offre l’immagine di un mondo dove tutto è dubbio ed angoscia. L’individuo sparisce di fronte alla collettività che, per l’artista, corrisponde all’atto di assumere una maschera la quale, a sua volta, non può esistere in solitudine, ma richiede che venga assunta da molte persone capaci di essere coese e di trovare così un destino comune.

Ensor dipinse, almeno tre decenni prima che se ne sentisse l’eco, l’avanzata dei totalitarismi; rappresentò la società, omologata e massificata, prima che esistessero radio e televisione; disse con i pennelli quel che poi avrebbero scritto Pasolini e Josè Ortega Y Gassett.

La mascherina è il segno iconico di questo tempo sospeso: traspone l’individuo in una dimensione simbolica collettiva, quel nesso di relazioni che lo trascende.

Una barriera frapposta tra il mondo e il soggetto, che si somma al distanziamento fisico ed in silenzio pare chiedere con gli occhi, recuperare la domanda “chi siamo?”

Dietro ogni maschera c’è un altro che resta, paziente, ad aspettare la risposta.

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